No ai cappelletti, viva il cuscus


Di don Giuseppe Bentivoglio (*)



 

Nelle settimane successive ai fatti accaduti negli Stati Uniti abbiamo ascoltato e letto, commenti e proposte di ogni genere, che mirano a cogliere le cause prossime e remote di questi fatti e a suggerire nello stesso tempo interventi capaci di risolvere il fenomeno terroristico e ciò che lo rende possibile. Abbiamo anche assistito a manifestazioni, il cui obiettivo - tando almeno alle dichiarazioni dei promotori - è stato ed è quello di ristabilire la pace e di condannare ogni violenza. Mi sembra interessante, perciò, capire quel fenomeno che sottende a siffatte manifestazioni e che prende il nome di “pacifismo”. L’interesse cresce se consideriamo che alle manifestazioni pacifiste partecipano anche molti credenti e che dichiarazioni di stampo pacifista sono state fatte da esponenti del mondo cattolico.

 

Il lettore certamente conosce il pacifismo e le sue origini: si tratta di un movimento che propugna l’abolizione della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.

Poiché il pensiero cristiano e l’insegnamento della Chiesa, con particolare insistenza negli ultimi cento anni, vedono nella pace un valore necessario e indispensabile per la vita degli uomini, il pacifismo appare un fenomeno che i cristiani possono positivamente valutare, condividere e promuovere. A mio parere le cose sono più complesse.

Innanzitutto i cristiani debbono vigilare su fenomeni che nascono in ambito civile, in quanto alle parole, che vengono dette, spesso corrispondono contenuti diversi. La diversità dipende dal soggetto ovvero dal suo orizzonte culturale. I contenuti, che diamo alle parole, che cosa cioè intendiamo per pace, giustizia, uguaglianza, libertà, e via dicendo, cambiano a seconda della nostra collocazione culturale. Sarebbe, quindi, ingenuo se ci mobilitassimo con altri solo perché costoro usano parole, che esprimono valori da noi condivisi, senza prima chiederci se intendiamo la stessa cosa (senza poi dimenticare che i mezzi scelti per affermare determinati valori e raggiungere determinati obiettivi non sono indifferenti e vanno sottoposti al giudizio morale e a quello storico).

Sento odore di qualunquismo

 

Tuttavia, ci sono rilevanti differenze nel modo di intendere la pace e di costruirla. Se osserviamo, infatti, le ultime manifestazioni pacifiste (ma agli stessi risultati possiamo giungere allargando l’osservazione agli anni recenti) notiamo che per molti, se non per tutti, la pace è un valore da considerare superiore a qualsiasi altro valore. Di conseguenza alla pace ogni altra cosa deve essere sacrificata. Mi sembra che l’equilibrio tra valori che hanno la stessa importanza e sono strettamente congiunti venga ignorato, per cui invocare la pace senza nello stesso tempo esigere giustizia, libertà e rispetto per l’identità di ognuno diventa una stonatura, diventa qualcosa di equivoco. Oppure chiedere a gran voce che nessun uomo debba essere ucciso da una guerra o soffrire per essa, senza mai allargare questo diritto alla vita in ogni suo ambito, non ultimo quello che riguarda la vita nascente, appare riduttivo. L’impressione, che si trae da urlate e variopinte manifestazioni pacifiste, è quella di una incapacità a giudicare i fatti nella loro complessità, limitandosi a slogans di facile presa, ma il più delle volte fuorvianti. Anche quando si invoca la giustizia, unendola alla pace, essa viene intesa in modo unilaterale, limitandosi agli aspetti economici e sociali di essa. Stupisce poi che la libertà, senza la quale non c’è dignità e rispetto per nessuno, quindi non c’è pace, venga ignorata: la cosa insospettisce e autorizza a pensare che chiederla per ogni uomo, ovunque egli sia e in qualunque società viva, sia imbarazzante per chi è ancora legato a scelte ideologiche ormai sorpassate, ma dure a morire. Ricordo che anni fa nelle manifestazioni pacifiste legate alla installazione in Italia dei missili Cruise i partecipanti gridavano: “Meglio rossi che morti”, il che la dice lunga sul basso profilo di siffatte manifestazioni, sulla pochezza ideale dei manifestanti e sull’indiscriminato attaccamento alla vita biologicamente intesa. Non mi sembra che la qualità della vita sia indifferente, e non mi sembra che la vita debba necessariamente valere, ad esempio, più della libertà né mi sembra che avere un motivo per spendere e magari dare la vita nasconda necessariamente una mentalità intollerante e guerrafondaia. Ho l’impressione che molti manifestanti abbiano paura di perdere la tranquillità, in cui sono abituati a vivere, di perdere il benessere grazie al quale possono soddisfare qualsiasi voglia e di essere costretti a fare qualche sacrificio. Voglio dire che le urla e gli slogans spesso offensivi (alla faccia del pacifismo), che ci tocca sentire in molte manifestazioni pacifiste o sedicenti tali, a mala pena nascondono un qualunquismo disposto - paradossalmente - a cedere a qualsiasi violenza, purché sia possibile evitare per sé ogni guaio.

 

 

Strappate le radici a un popolo e perderà la testa

 

Va ancora ricordato che l’insegnamento della Chiesa non condanna la legittima difesa, fatta a determinate condizioni, qualora non ci siano altri mezzi (ma questo è un giudizio storico!) per evitare che altri beni siano minacciati e fra questi beni occorre mettere l’identità dei popoli, le loro tradizioni e i valori, nei quali questa identità si è storicamente incarnata, oltre ai diritti umani internazionalmente riconosciuti. Il pacifismo occidentale dimentica che la testimonianza e la difesa dell’identità religiosa e culturale delle persone e dei popoli è inevitabile, se non vogliamo che alla vera pace, fatta da uomini liberi, si sostituisca la tranquillità delle “anime belle”, ma senza volto. Lottare per l’identità del popolo, al quale apparteniamo, e per il suo patrimonio storico-culturale, difendendo le realizzazioni compiute lungo i secoli, è impegno per la pace, anche se dovesse essere - malgrado ogni sforzo - un impegno armato. D’altra parte la pace a qualsiasi costo non è pace, ma acquiescenza, che diventa complice dell’ingiustizia e quindi della violenza. Nello stesso tempo, pensare che la fierezza per la propria storia e per l’appartenenza ad una ben precisa tradizione porti all’intolleranza, che è l’anticamera della violenza, è una dimostrazione di ottusità e pochezza morale.

Come il Papa insegna, non è possibile chiedere che la pace venga ristabilita senza nello stesso tempo chiedere che vengano garantite le condizioni perché essa sia adeguatamente supportata, il che significa ad esempio rispettare ogni tradizione, nella quale l’umanità ha manifestato se stessa. Preoccupa il fatto che nella recente “Marcia per la pace” di Assisi ci fossero cartelli che inneggiavano alla fine di ogni identità (come la foto documenta ), quasi che fossero queste identità a causare necessariamente ogni conflitto. Tra l’altro, così facendo, i manifestanti sono caduti in una clamorosa incoerenza: non sono costoro contrari alla globalizzazione, intesa come forzata omologazione di ogni identità e cultura? Come mai vanno attribuendo alle identità storicamente più significative la responsabilità dei mali, che affliggono il nostro tempo? È il rifiuto del cristianesimo a rendere ciechi costoro!

Purtroppo esiste una violenza diffusa e quindi non facilmente identificabile, che propugna il rifiuto di ogni identità popolare e quindi personale, e che giunge ad auspicare la loro estinzione.

A mio avviso è la peggiore intolleranza ed è la peggiore sopraffazione che possa essere fatta alle persone. Quando esse dimenticano le proprie radici, non solo diventano violente, ma deboli e sono facile preda di ogni manipolazione, quindi di ogni nascosta violenza. Se l’Occidente rinnega le proprie radici, che - piaccia o non piaccia - sono cristiane, come riconoscono anche coloro che cristiani non sono o che non si considerano tali (vedi Oriana Fallaci nel suo recente e discusso articolo sui fatti di New York), non potrà che essere sconfitto e, colla perdita della propria identità, perderà anche le conquiste della sua civiltà. Che persone, fossero anche ragazzotti non abituati all’uso della ragione (preferiscono l’uso degli spinelli) debbano andare in giro, come sempre la foto dimostra, travestiti da islamici, quasi si vergognassero della propria tradizione religiosa e culturale (al di là di ogni professione di fede), la dice lunga sui danni che la cultura del nulla, mascherata con slogans, ha portato e porta alle nuove generazioni. L’odio per il cristianesimo non conduce a rispettare le altre tradizioni: anche di esse si auspica l’estinzione. Non solo, ma i loro simboli diventano pretesto per le consuete pagliacciate.

 

 

Gesù va bene, purché sia in dose omeopatica

 

Ma la cosa che più di ogni altra addolora è osservare la complicità - più o meno consapevole - di molti cattolici in questa concezione asfittica della pace (che non tiene conto di tutti i fattori che sono in gioco) e in questo processo, ormai avanzato, di demolizione della tradizione cristiana e di emarginazione del Fatto cristiano dalla società. Mi chiedo a che cosa attribuire questa ottusa complicità, questa tendenza ad assumere la mentalità del mondo (dal quale già S. Paolo metteva in guarda i cristiani del suo tempo, quando diceva (Rom 12,2): “Non conformatevi alla mentalità di questo secolo….”), questo correre dietro a qualsiasi novità senza alcun discernimento, e mi accorgo che tutto questo nasce da una carenza di giudizio originale, al quale le persone non sono educate. E non lo sono in quanto al posto di Cristo vengono messi i valori e a questi valori vengono educate (indottrinate?) le persone. È a questo proposito interessante l’intervento del Card. Ratzinger in occasione dell’ultimo Sinodo dei vescovi. Il Cardinale dice: “Il problema centrale del nostro momento mi sembra essere lo svuotamento della figura di Gesù Cristo. (...) Un Gesù così impoverito non può essere l’unico Salvatore e mediatore, non è il Dio-con-noi, ed alla fine Gesù viene sostituito con l’idea dei “valori del regno”, che in realtà non ha un contenuto preciso e diventa una speranza senza Dio, una speranza vuota”.  Sono parole molto attuali. Infatti, se le persone non sono educate a fare esperienza di Cristo, incontrato, accolto e seguito nella Tradizione viva del suo Corpo, che è la Chiesa, se cioè il rapporto con Cristo non è storico ma è semplicemente affidato al sentire individuale di ognuno, accade che Cristo diventa semplicemente un esempio, non una presenza. Di conseguenza dal suo esempio si possono estrapolare  alcuni valori che prendono il posto della carne di Cristo. Ma senza una esperienza di Cristo questi valori assumono i contenuti del mondo e i valori tipicamente cristiani vengono accantonati. In questo modi i cristiani diventano succubi delle ideologie dominanti e concorrono a disperdere nella mentalità comune la loro identità. Partecipare a manifestazioni pacifiste e a marce della pace assumendone i contenuti grossolani e superficiali diventa una subordinazione a ideologie e movimenti, che non possono rappresentare la ricchezza del sentire cristiano e che, se hanno diritto ad esistere, non per questo possono pretendere di rappresentare chiunque abbia a cuore la pace e lavori per essa.

Questa rappresentatività non può che essere fortemente ridotta, se osserviamo quanto le manifestazioni pacifiste siano egemonizzate da ideologie vagamente di sinistra e di conseguenza abbiano una impostazione unilaterale, per non dire faziosa. Di conseguenza non possono affermare in modo ricattatorio che il fatto di non aderire ad esse significa non volere la pace, ma la guerra. D’altra parte è possibile operare a favore della pace, intesa in ogni suo aspetto, senza appartenere alla “congrega delle anime belle” e senza lasciare che siano esse a fissare contenuti e modalità. Inoltre, avvallare, sia pur indirettamente, l’evidente faziosità di molti slogans e quindi di molte marce non mi sembra una dimostrazione di intelligenza e di prudenza. Qualcuno potrebbe chiedere dove sta la faziosità.

 

 

Tutti gli uomini sono uguali, i cristiani un po’ meno

 

A me basta notare che “le anime belle” tacciono quando violenze e discriminazioni avvengono (o avvenivano) nei paesi socialisti e che il loro silenzio è assordante, quando in molti paesi non occidentali i diritti umani vengono conculcati e soprattutto quando ad essere discriminati e perseguitati sono i cristiani. Dove erano tutti costoro quando nello stesso giorno, in cui le “anime belle” marciavano tra Perugia e Assisi, musulmani inferociti uccidevano in Nigeria circa duecento persone, per lo più cristiane? Nessuno, eccetto il Papa, ha protestato e nessuno ha marciato per quelle vittime. E dove erano le solite associazioni cattoliche quando venimmo a sapere che le vittime della violenza islamica in Nigeria nel solo mese di ottobre sono state almeno 500 e l’anno scorso circa 2000? Nessuno si è accorto delle parole drammatiche pronunciate al Sinodo dei vescovi dall’arcivescovo di Abuja. Avendo denunciato l’odio religioso che grava sul cristiani, i marciatori cattolici non lo hanno degnato delle minima attenzione.

Poche settimane fa un missionario italiano, Giuseppe Pierantoni, è stato rapito nelle Filippine dai guerriglieri islamici, i quali ogni anno fanno centinaia di rapimenti e di morti nei villaggi cristiani, ma contro di loro nessuno protesta. E chi, se non il Papa, ha alzato la voce per protestare lo scorso anno per le stragi di cristiani a Timor est e quella più recente in Pakistan?

Decisamente qualcosa non funziona, non tanto nella variegata schiera dei pacifisti laici, quanto in quella dei pacifisti cristiani.

La pace è un’altra cosa, anzi, un’altra esperienza

 

Ma che significa per un cristiano edificare la pace? Significa innanzitutto fare esperienza di quella pace che è dono di Dio, dono a noi fatto mediante Cristo. Come dice la lettera agli Efesini, “Egli è la nostra pace” (2,14). E con ciò intende la riconciliazione con Dio e quindi con gli altri uomini. Questo fondamento garantisce che la pace passa attraverso il riconoscimento della dignità di ogni uomo, in quanto questa dignità viene da Dio, e che la libertà è l’indispensabile mezzo, del quale ogni uomo si avvale per manifestare e vivere questa sua dignità. Ma le parole di Paolo ci ricordano che senza una personale riconciliazione con Dio, senza la ritrovata pace del cuore, è molto difficile che l’impegno per la pace, sempre lodevole, sfugga al moralismo e non scivoli nell’impazienza e nella pretesa e soprattutto non venga vissuto in modo unilaterale. La pace incomincia da sé e si estende a chiunque, coinvolgendo l’intera realtà. Il “Catechismo della Chiesa cattolica” ricorda che se non ci lasciamo rinnovare dal Signore mediante il suo Spirito difficilmente portiamo frutto: “È per questa potenza dello Spirito che i figli di Dio possono portare frutto. Colui che ci ha innestati sulla vera Vite, farà sì che portiamo «il frutto dello Spirito [che] è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (736). In altre parole la Chiesa ci invita a consolidare la nostra identità se vogliamo operare nel mondo secondo verità, giustizia e pace. Solo l’esperienza dell’amore di Dio, che ha il volto di Cristo, impedisce che un valore, ad esempio la pace, impazzisca e diventi pretesto per forme di intolleranza, che sfociano nel paradosso di inveire e linciare, magari solo verbalmente (ma fatti recenti dimostrano che facilmente si passa a vie di fatto), coloro che scelgono strade diverse dalle proprie per raggiungere lo stesso obiettivo di pace. Il cristiano, anche in questo caso, porta una concezione della pace del tutto originale e può contribuire a dare spessore e ampio respiro all’impegno di tutti, evitando così riduzioni e deformazioni ideologiche a siffatto impegno. La cosa peggiore sarebbe dimenticare la propria originalità per intrupparsi acriticamente in prospettive ambigue e in modalità e iniziative, che soffocano tale originalità, con il solo scopertine/copo di correre dietro alle mode del tempo. Il timore di essere diversi è in molti cristiani duro a morire ed è paradossale che ciò avvenga in tempi, dove si fa una gran parlare di pluralismo. La sottomissione da parte di molti, troppi, cattolici all’ideologia dominante, caratterizzata da moralismi feroci, è lo spettacolo più vergognoso cui assistiamo da molti anni. Non si tratta di chiudersi in cittadelle strenuamente difese o di rinunciare a collaborare con altri, ma si tratta di non assumere misure altrui per paura di perdere il treno della storia. L’ossessione di non essere “politically correct” dimostra la scarsa affezione per la propria identità cristiana, se non la vergogna di essa. Leggevo recentemente nel nuovo libro di Luca Goldoni (“Zoo residenziale”) quanto segue: “A Parma avevo accompagnato all’asilo la mia nipotina e mi aveva incuriosito uno strano presepio: casupole con le finestre accese di luce rosata, vicoletti, piccole piazze, colline innevate. Ma nessuna statuina: niente pastori, niente magi, niente cometa, niente capanna, niente Gesù. Ad una giovane maestra chiesi ragione di quel diorama spopolato e asettico. Spiegò severamente che, per rispetto dei bambini musulmani, non si trattava di un presepio troppo cristiano, ma d’un semplice paesaggio natalizio. Mi parve un clamoroso nonsenso (Natale, e quindi natalizio, si riferiscono alla nascita di un bambino un po’ speciale) e chiesi se nel pranzo multirazziale si fossero aboliti gli offensivi cappelletti, sostituendolo con il cuscus”. Nel mondo cattolico, e non solo, imperversa la paura matta di non essere abbastanza terzomondisti, laici, comprensivi, protettivi e - come già detto - politicamente corretti.

Ma c’è un ultimo contributo che il cattolico, che non si vergogna di sé, può dare a chiunque sia impegnato nella ricerca della pace, ed è quel realismo, tipicamente cristiano, che rifugge da utopie soffocanti e sognanti, quel realismo che non dimentica il limite che ognuno, e quindi ogni umana impresa, porta con sé, limite che la Tradizione chiama peccato originale. Quindi il cristiano non pretende tutto e subito e sa che il compromesso nelle cose umane è inevitabile, perciò non si scandalizza della imperfezione di ogni cosa e non punta il dito, scandalizzandosi, se ogni giorno bisogna incominciare di nuovo, convertendo il proprio cuore al Signore e in ogni cosa restando fedele al dono ricevuto e alla identità umanamente vera che tale dono gli ha procurato.

 

 

I movimenti pacifisti

 

Le sue radici sono da identificare nelle riflessioni di filosofi e pensatori della seconda metà del sec. XVIII e nei vari movimenti sorti lungo il sec. XIX (New York Peace Society, Lega permanente per la pace, Società per la pace, ecc.). Il pacifismo trovò una prima concreta realizzazione nella fondazione della Corte internazionale di giustizia dell’Aia (fine sec. XIX), che aveva specifiche funzioni di arbitrato internazionale. Entrambi i conflitti mondiali del XX secolo furono seguiti dalla creazione di organismi internazionali garanti del mantenimento della pace, la Società delle nazioni nel 1920 e l’ONU nel 1945. Tuttavia l’opera più radicale di difesa e diffusione dell’ideale pacifista nella seconda metà del sec. XX è venuta da parte di gruppi di intellettuali, di estrazione sia cristiana (P. Mazzolari, L. Milani) sia marxista (per i marxisti e i socialisti la guerra è un tipico strumento del capitalismo per ampliare i mercati e risolvere le crisi del sistema), dalla riscopertine/coperta e dall’approfondimento della dottrina della non-violenza di Gandhi (A. Capitini, M. Luther King) e dall’opera di sensibilizzazione dell’opinione pubblica svolta dai vari movimenti di base in occasione di conflitti di rilievo internazionale (es. guerra nel Vietnam, del Golfo) o promotori più in generale di istanze antimilitaristiche (protesta contro la proliferazione nucleare, obiezione di coscienza, ecc.).

Il pacifismo intende farsi carico di quel diffuso bisogno e desiderio di pace che appartiene ad ogni uomo, chiunque egli sia.

 

  

L'ABC della pace

 

Detto questo vediamo che cosa il “Catechismo degli adulti” dice quando parla di pace. Quando si rivolge ai singoli, esclude ogni forma di violenza nel raggiungere un determinato scopertine/copo, qualunque esso sia (v 1165). Il cristiano è chiamato a costruire la pace (v. 1165). Per questo egli si impegna “ impegnano a creare una convivenza armoniosa, in cui sia rispettata la dignità di ogni persona e l’originalità di ogni gruppo sociale. Promuovono per tutti il benessere materiale e spirituale, temporale ed eterno” (863).

Quando si rivolge alle nazioni e agli Stati leggiamo che la guerra, che aggredisce e offende, deve essere bandita (v 1137). Tuttavia , “in caso di estrema necessità, qualora ogni altro mezzo  si sia rivelato impraticabile, non si può negare ai popoli quel diritto alla legittima difesa che non si nega neppure ai singoli uomini. Per motivi analoghi è consentita l’ingerenza umanitaria armata da parte di un paese neutrale o di un’istanza internazionale, per mettere fine a una strage crudele tra due fazioni o due popoli in lotta. L’intervento armato dovrà in ogni caso essere proporzionato ai beni da salvaguardare e limitato agli obiettivi militari” (1138). Parlando, poi, del terrorismo dice: “Come la guerra totale, merita una netta condanna anche il terrorismo, sebbene abbia una capacità distruttiva molto più limitata. In quanto uccisione diretta e indiscriminata di innocenti, è giustamente ritenuto un metodo criminale di lotta, anche quando l’obiettivo perseguito fosse giusto” (1138).

 

Le affermazioni più importanti sono però quelle che allargano l’orizzonte e aiutano a capire che:

1.     La pace presuppone che vengano soddisfatte alcune esigenze e rispettati alcuni diritti, per cui “la pace non si riduce all’assenza di guerra. È una costruzione politica” (1040). Non c’è pace senza giustizia e adeguato sviluppo dei popoli e senza rispetto “per la dignità di ogni persona e l’originalità di ogni gruppo sociale” (863).

2.     La pace è sempre minacciata ed è un obiettivo mai pienamente raggiunto: “Le contese tra gli uomini non cesseranno; la pace perfetta verrà al di là della storia. Il cristiano sa di non avere soluzioni definitive; ma si impegna ugualmente con totale serietà, per attuare un’anticipazione profetica della salvezza” (1040).

3.     La pace deve esistere innanzitutto nel cuore di ognuno: “La pace è un fatto spirituale” (1040). Ma perché ci sia questa pace occorre che il cristiano accolga il dono della pace. Essa viene da Dio ed ha il volto di Cristo: “Egli è la nostra pace”. In Cristo Dio ci riconcilia con sé e quindi con ogni uomo. Il fondamento della nostra pace non sta in noi ma sta nella persona di Cristo.

Sembrerebbe a questo punto che il pacifismo persegua gli stessi obiettivi e sia mosso dallo stesso desiderio di pace, che l’insegnamento della Chiesa chiede a chiunque, in modo speciale ad ogni cristiano.
 

(* Presidente di Caritas Ticino)